Anche l’industria della moda potrebbe veloce soffrire l’impatto dell’odierno contesto geopolitico. A darne prova, negli ultimi mesi, sono stati i continui attacchi dei militanti sostenuti dall’Iran nel Mar Rosso, che hanno di fatto causato la chiusura di una delle principali rotte commerciali del mondo alla maggior parte delle navi portacontainer. Come si legge sulla Cnn, il Canale di Suez rappresenta il 10-15% del commercio mondiale, che include dalle esportazioni di petrolio ad, appunto, quelle di abbigliamento. Da metà novembre scorso però, con l’inizio degli attacchi degli Houthi (i ribelli yemeniti finanziati dall’Iran) alle navi commerciali, il numero di container è drasticamente diminuito del 70%, con molti degli armatori che, benché i cosi più alti a causa di una tratta più lunga, hanno deciso di interrompere il traffico deviando attorno al Capo di Buona Speranza.
In molti casi – come riporta Fashion Magazine citando un report di Bernstein – questo significa , che le tariffe spot sono triplicate dall’inizio di dicembre e che gli importatori devono far fronte a interruzioni delle forniture. Per retailer e fashion brand l’impatto, che in termini economici sarà determinato solo dalla durata della crisi, dipende da fattori come le vendite in Europa, la produzione in Asia, il tipo di trasporto (marittimo o aereo) e i tempi di consegna.
Secondo quanto emerge dallo studio “Global Apparel & Transports: The Red Sea ruckus and retail supply chains” pubblicato su Fashion Magazine, gli analisti di Bernstein stimano che, tra i retailer europei di abbigliamento quotati, Inditex sia attualmente il meno colpito, in quanto si rifornisce maggiormente dall’Europa e dall’area Mena affidandosi principalmente al trasporto aereo. I player più colpiti dovrebbero invece essere H&M e Abf-Associated British Foods (il gruppo a cui fa capo Primark) a causa della loro maggiore dipendenza dagli approvvigionamenti asiatici (oltre l’80%) e l’elevato utilizzo del trasporto marittimo (95%). Nel mezzo Next, con una percentuale più elevata di abbigliamento proveniente dall’Asia, ma con un maggiore ricorso al trasporto aereo.
Una delle possibili soluzioni, per prevenire un impatto significativo sulla disponibilità delle merci, sarebbe infatti l’impiego di un modello misto di trasporto aereo (il cui costo andrà presumibilmente ad aumentare) e marittimo per capi di competenza e che dipendono dalla stagione.
Per quanto riguarda i marchi e i retailer statunitensi, continua lo studio, l’impatto immediato del blocco della rotta di Suez è visto come modesto, data la minore esposizione alle vendite in Europa e l’utilizzo delle rotte del pacato per importare dall’Asia agli Stati Uniti. Marchi Nike, Adidas e gruppi come Capri Holdings (società, pertanto di Tapestry, che controlla Versace, Michael Kors e Jimmy Choo) che hanno un’esposizione in Europa, saranno maggiormente colpiti, così come le label che spediscono attraverso le rotte di Suez, come ad esempio Lululemon.
Attualmente, come riportato dalla testata italiana, gli esperti di Bernstein non temono un impatto significativo sulla disponibilità, essendo che un ritardo di due settimane in questo periodo dell’anno non dovrebbe essere “catastrofico”. E non temono nemmeno costi troppo onerosi, in quanto i noli sono ancpertanto ben al di sotto dei picchi del 2022 ed è improbabile che le “spaventose tariffe spot” siano quelle effettivamente pagate dai rivenditori di abbigliamento per le spedizioni.